Le cure palliative ancora «Cenerentola» d’Italia: sarebbero necessarie per quasi 600mila persone l’anno (nell’84% dei decessi), ma la copertura risulta ancora insufficiente (secondo i dati del ministero della Salute più recenti, circa una persona su 3) anche per i soli pazienti oncologici. E non è un dato che riguarda esclusivamente la popolazione anziana: tra i minori solo il 15% di chi ne ha bisogno (circa 30mila) le ottiene. Lo ribadisce il Rapporto dell’Osservatorio Salutequità dedicato a questo tema.
E c’è anche il dolore cronico, quello con cui le persone fanno i conti a lungo, mesi o anni: in Italia quello «severo»colpisce circa un milione di persone che raddoppiano (due milioni) se si considera il dolore cronico moderato. Il costo medio di un paziente con dolore cronico è di oltre 4.500 euro con costi diretti per il Servizio Sanitario Nazionale di circa 1.400 euro (quindi, su due milioni di individui, si parla di quasi 3 miliardi di euro) e altrettanto di costi indiretti (congedi, assenze per malattia ecc.).
Come forse saprete, nelle cure palliative e terapia del dolore l’Italia ha un primato: è stata la prima in Europa a varare una legge-quadro (la 38/2010) per riconoscere il diritto alla misurazione e al trattamento del dolore, al trattamento delle sofferenze di paziente e familiari, alla formazione dei professionisti e a un’organizzazione secondo reti cliniche.
Luci e, purtroppo, tante ombre. Perché a fronte di questa «primogenitura» non si riesce ancora ad avere una completa applicazione della normativa. Il Report di Salutequità, infatti, evidenzia come l’ultima Relazione al Parlamento sullo stato di attuazione della legge 38, che doveva essere annuale, risale al 31 gennaio 2019 e si riferisce all’intervallo di tempo 2015-2017, con un «vuoto» di rendicontazione di 6 anni rispetto allo stato dell’arte, agli sviluppi della legge quadro, alla capacità di garantire ai pazienti e alle loro famiglie il diritto a non soffrire inutilmente.
Per questo Salutequità, attraverso il suo Osservatorio, ha voluto riportare l’attenzione sul tema che incrocia un interesse sensibile per i diritti dei pazienti così come per la qualità, l’efficienza e l’efficacia del SSN.
Vediamo che cosa ha appurato il Report. Dall’emanazione della legge si sono succedute una serie di norme tra cui la più recente legge di Bilancio del 2023 che ha definito un traguardo importante e non più procrastinabile: entro il 2028 le cure palliative dovranno raggiungere il 90% delle persone che ne hanno bisogno, ma la Corte dei Conti sottolinea come nel 2021 (ultimi dati disponibili) sia «ancora fortemente insufficiente l’assistenza prestata ai malati di tumore attraverso la rete delle cure palliative: appena 5 regioni, tutte del Centro-Nord, sono state in grado di garantire un livello adeguato; tra le regioni meridionali, solo la Puglia con una percentuale del 34,3 si avvicina alla soglia minima richiesta (35 per cento)». I dati di Italialongeva riportano che nel 2022 solo una persona su tre deceduta per tumore, precisamente il 36%, aveva ricevuto assistenza di cure palliative: 61 mila persone.
«I dati sulle cure palliative pediatriche – commenta Tonino Aceti, presidente di Salutequità – sono irricevibili per un SSN che dichiara di mettere al centro l’umanizzazione dell’assistenza. Su un fatto così grave, dopo l’acquisizione del dato ci aspettiamo interventi concreti e risolutivi in tempi brevi, perché quelle famiglie tempo da perdere non ne hanno».
«Dobbiamo recuperare terreno – aggiunge – sul fronte dell’offerta e adeguarla ai bisogni reali della popolazione. Questo vale sia per la terapia del dolore, che rischia di essere un diritto per chi vive al nord, come mostra la distribuzione dei centri e l’uso dei farmaci; sia per le cure palliative, dove ancora oggi misuriamo l’andamento considerando l’assistenza offerta ai soli pazienti oncologici. Ma stando a stime europee, rappresentano solo il 40% delle persone adulte che avrebbero necessità di cure palliative. Il restante 60% di chi ne ha bisogno è affetto da patologie croniche degenerative non oncologiche (dalle malattie cardiovascolari al Parkinson). E ad oggi non sono oggetto di valutazione nel nuovo sistema di garanzia dei livelli essenziali di assistenza: in altre parole non è parametro di valutazione delle performance delle Regioni nella loro capacità di garantire i LEA».
Ancora non ci siamo. Tutte le Regioni avrebbero dovuto realizzare la Rete di cure palliative, secondo quanto previsto dalla legge 38/2010. Ma, a distanza di 13 anni, due Regioni a dicembre 2021, secondo le rilevazioni di Agenas, Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, non avevano l’avevano istituita: Abruzzo e Marche. Tutte le reti esistenti dichiarano di prendere in carico pazienti oncologici e non oncologici; 14 non avevano attivato la procedura di accreditamento.
La situazione è sensibilmente peggiore per le cure palliative pediatriche, che non risultava istituita in otto Regioni: Abruzzo, Calabria, Lazio, Marche, Puglia, Sardegna, Umbria, Valle d’Aosta.
Per la terapia del dolore invece, in assenza di dati istituzionali, viene in soccorso il censimento SIAARTI che nel 2021 ha rilevato 305 centri di terapia del dolore non oncologico, anch’essi collocati in modo eterogeneo sul territorio: 164 al Nord, 64 al Centro e 77 al Sud.
Non va meglio anche su altri due fronti essenziali per l’applicazione della legge.
Gli esperti in cure palliative, soprattutto pediatriche, continuano a sottolinearlo: medici, infermieri ma anche il resto del personale sanitario che lavora in questa branca delicatissima della Medicina, hanno bisogno di una formazione del tutto peculiare. L’analisi di Salutequità sottolinea come l’ultima relazione al Parlamento giudicasse l’offerta formativa disomogenea sul territorio nazionale – confermata, peraltro, nel 2021 dall’Istruttoria Agenas – con 9 Regioni che non avevano attivato corsi di formazione per i professionisti per le cure palliative. Sul fronte ECM, ovvero di crediti formativi necessari, la banca dati Agenas mostra che, dal 2019 a oggi, l’attenzione e l’aggiornamento professionale sul tema ha avuto una flessione verso il basso: la pandemia ha fatto passare in secondo piano questi aspetti, anche se si colgono segnali di ripresa.
Per quanto riguarda poi l’utilizzo dei farmaci per il trattamento del dolore, risaltano ancora una volta differenze Nord-Sud, che richiederebbero una valutazione omnicomprensiva rispetto all’organizzazione e allo sviluppo delle reti cliniche di riferimento, così come di gap di diagnosi e cura a partire dal dolore cronico non oncologico.
Nel 2022, il Rapporto OsMed dell’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) evidenzia che il ricorso ai farmaci contro il dolore riguarda prevalentemente il dolore neuropatico (41% delle dosi giornaliere totali in aumento del 4,8% rispetto al 2021). L’uso di questi farmaci si riduce spostandosi da Nord a Sud, dove il consumo è di 6,2 DDD, di circa il 22% inferiori alla media nazionale (7.9); per contro le Regioni del Nord hanno un livello di consumo del 14% superiore (9). Le regioni nelle quali l’uso dei farmaci contro il dolore (dosi per mille abitanti al giorno) è superiore alla media nazionale sono quasi tutte al nord: Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Friuli-Venezia Giulia, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana. Le regioni in cui l’uso è notevolmente al di sotto tra 5.4 e 5.8 DDD sono: Calabria, Campania, Molise, Sicilia. Colpisce anche che di fronte ad un dolore cronico, metà dei pazienti sia stato trattato per meno di due settimane e oltre un terzo (34%) abbia ricevuto un’unica prescrizione nel corso dell’anno; le Regioni del Sud riportano i livelli più alti di utilizzatori sporadici (37,8%).
Secondo Salutequità, una legge dello Stato ancora vigente e oggetto di Accordi Stato-Regioni non può essere e non deve essere applicata parzialmente soprattutto quando in ballo c’è la qualità di vita delle persone e l’efficienza del SSN. Quindi, è indispensabile: