Quella delle cure palliative, in Italia, è ancora una “landa desolata”? Quante sono le strutture che dispensano realmente le terapie “globali” di cui un neonato o un bambino e la sua famiglia hanno bisogno? Il personale è adeguato, sia in termini numerici sia di formazione? Come vengono erogate le cure e con quali risultati? Se dal punto di vista normativo, il nostro Paese ha saputo creare una delle migliori leggi a livello internazionale, la 38 del 2010, sul fronte “conoscitivo” invece le lacune sono enormi. O, meglio, lo erano. Fino a maggio del 2023, quando sono stati presentati i risultati dello studio PalliPed (Studio delle caratteristiche dei pazienti pediatrici che accedono alle reti e alle strutture di Cure Palliative Pediatriche). Molti di voi, probabilmente, ne avranno già sentito parlare perché ha fatto scalpore. Lo studio (per i contenuti, si veda la scheda), per la prima volta, fotografa lo stato dell’arte delle Cure Palliative Pediatriche in Italia. A coordinarlo è stata la professoressa Franca Benini, responsabile del Centro Regionale Veneto di Terapia del dolore e Cure Palliative Pediatriche, Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino, Università di Padova). A impostarlo, strutturarlo e coordinarlo è stata la professoressa Franca Benini, responsabile del Centro Regionale Veneto di terapia del dolore e Cure Palliative Pediatriche, Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino, Università di Padova. La Fondazione Maruzza ETS, della quale la dottoressa Benini è direttore scientifico, ha sostenuto, finanziato e promosso il progetto.
Abbiamo chiesto alla professoressa Benini di ripercorrere con noi la storia di questa ricerca fondamentale, riflettendo su finalità e risultati. Con uno sguardo anche sul futuro di Palliped.
«Sono convinta che prima di parlare bisogna conoscere ed avere i dati. E uno dei problemi grossi delle cure palliative pediatriche è che si è parlato molto ma non ci sono dati, per cui sono finite in un mondo spesso retorico ed emozionale. Ancora oggi, vedo questo come un grande rischio. Quindi da almeno quattro anni continuavo a portare avanti l'idea di un database di monitoraggio sul come stanno andando le cose. Da lì, l’idea condivisa con la Fondazione Maruzza di dare avvio al progetto Palliped, vale a dire una fotografia reale ed attuale del livello di realizzazione delle CPP in Italia. Realizzarlo non è stato facile».
«I questionari intendevano valutare due grossi ambiti: il primo come sono strutturati e come funzionano i centri che offrono CPP in Italia, il secondo la tipologia di pazienti che vi afferiscono e quali bisogni sono realmente corrisposti. Quindi siamo partiti a individuare quali sono i centri che fanno le cure palliative pediatriche specialistiche. Devo dire che c'è stata un'ottima risposta dei colleghi, perché partecipare a questo lavoro non era certamente semplice né veloce: significava rispondere ad un primo questionario su setting, funzioni, processi e personale del centro stesso e rispondere anche ad a un secondo questionario per ogni bambino in carico al servizio nel giorno prestabilito del 23 ottobre 2021. Si è fatta un'indagine a 360 ° su tutti i bisogni del singolo paziente in carico i bisogni sociali, formativi, clinici psicologici, di comunicazione e pianificazione condivisa di cura: un questionario di più di 80 domande per ogni bambino. Successivamente tutti i questionari sono stai raccolti in un database e sono stati analizzati i dati. Questo ci ha portato ad avere una mappa reale su quello che c'era come organizzazione di risposta ai servizi e sulla tipologia dei pazienti in carico in quel momento».
«Vi erano dei dati molto sommari e di indirizzo raccolti attraverso una intervista telefonica nel 2018. Nell’intervista si erano chieste le informazioni di base relative alla tipologia della risposta assistenziale, il personale ed il numero di pazienti in carico. In pratica è stato proposto un questionario sulla ricaduta della legge 38 all'interno di quella struttura. Non c'erano dati sui pazienti. Con PalliPed siamo andati più a fondo. È stato un lavoro immane, sia per la raccolta dei dati sia sulla loro gestione. Abbiamo avuto la conferma di quanto già pensavamo: un'Italia a macchia di leopardo, dove molte erano le deviazioni rispetto a quanto sancito dalla normativa sia in relazione all’organizzazione sia al modello. La legge sancisce che devono essere prese in carico tutte le tipologie di pazienti, ma non sempre è così. Devi avere un’assistenza h 24, ma spesso non è così. Devi avere un'equipe dedicata, frequentemente non è così: alcuni centri/servizi hanno un'equipe mista, personale prestato, che in realtà fa un altro lavoro. Hospice pediatrico che in alcune realtà sono solo pochi letti all’interno dell’hospice adulto, quasi mai del resto utilizzati per pazienti pediatrici. La mappa che si è venuta a realizzare attraverso i dati raccolti ci permette di evidenziare le criticità su cui lavorare ed implementare i nostri sforzi. E sulla parte invece della tipologia dei pazienti in carico, secondo me c’è stata l'evidenza che da un punto di vista sanitario i pazienti sono ben seguiti, mentre abbiamo ancora carenze in ambito psicologico e sociale».
«Purtroppo si ... Alcune regioni organizzano in deroga di quanto previsto nell’accordo del 2012, primo accordo subito dopo la legge 38, che parla del modello organizzativo e di quanto sancito dall’Accreditamento del 2021».
«Sì. Per dare un’idea, su tutta l'attività di rete nazionale di cure palliative specialistiche italiane lavorano full time equivalent, poco più di 50 medici: davvero pochi. Medici che dovrebbero gestire più di 10.500 bambini ad alta/altissima complessità quasi tutti a domicilio. Non è il bambino che ha l'influenza o l'appendicite o la tonsillite. Sono bambini che hanno bisogni complessi e che normalmente vivono, se dovessero essere in ospedale, in ambito critico. Quindi c'è un deficit importante di risorse dedicate, di personale ma, aggiungo, c'è un deficit anche importante di personale formato, perché questo è un altro grosso problema».
«Per fare questo lavoro ci vogliono tempo ed esperienza, ma soprattutto ci vuole studio. Invece quella volontà di considerare le cure palliative come qualcosa di emotivamente ripagante, fa sì che basta essere una “brava persona” per poterci lavorare. Invece la formazione di questi professionisti richiede tempo perché accanto alla formazione pediatrica che è ineluttabile e assolutamente necessaria, ci vuole tutta la formazione relativa all’ambito specifico delle cure palliative. C’è necessità di avere una formazione intensivistica, perché il più del 70% dei nostri bambini dipende dalle macchine per vivere. C’è bisogno di competenze organizzative, relazionali, di comunicazione, competenze in materia di bioetica e la capacità di lavorare in team: una competenza che richiede una formazione e un monitoraggio continuo. Quindi, avere persone formate in questo ambito è faticoso e talvolta un privilegio».
«Per la stragrande maggioranza, si tratta di pediatri con esperienza di lavoro nell’ambito critico pediatrico (che si occupano cioè di pazienti in condizioni di salute molto gravi, ndr), a cui si aggiunge tutto il resto della formazione .. ».
«Penso che all'interno delle cure palliative, se non si ragiona in team non si può lavorare. Perché le competenze che ha l’infermiere, non le ha il medico. Quelle del fisiatra o dello psicologo, non le hanno il medico e neppure l'infermiere. Le malattie che curiamo sviluppano problemi, innescano bisogni che necessitano di risposte integrate. Queste risposte devono tener conto della componente psicologica ma anche spirituale, bioetica e sociologica. E quindi la risposta deve essere interdisciplinare. Non è più il tempo delle risposte parallele, quelle della vecchia medicina che obbligava il paziente ad interloquire con più servizi e più professionisti. L'obiettivo è completamente diverso. Io tolgo la fatica al paziente, alla famiglia di organizzare il proprio percorso. Questo se lo prende sulle spalle il team di cure palliative, che condivide fra tutti i professionisti il programma di cura di quel paziente e di supporto per quella famiglia... Da questo punto di vista, un grande insegnamento arriva dall'insieme dei professionisti sul territorio, perché loro sono abituati più degli ospedalieri a lavorare per problemi e in team. I pazienti portano dei bisogni, non l'etichetta di una diagnosi. Siamo noi clinici che l'etichettiamo per diagnosi, ma la realtà vera è che loro ti pongono dei problemi che innescano dei bisogni».
«Devo dire che, per quanto riguarda i pazienti, abbiamo riconfermato quello che già esiste nella letteratura scientifica. Però abbiamo una conferma nazionale, il che è notevole. I pazienti oncologici sono limitati nel numero, il 10% sul totale. Il 90% invece appartiene ad una miscellanea di patologie molte rare, tutte complesse. Quindi abbiamo una numerosità fortunatamente bassa di malati oncologici, ma una numerosità altissima di patologia cronica inguaribile ad altissima complessità, soprattutto neurologica, metabolica, muscolare, ma anche cardiaca e post-anossica. Quindi abbiamo un'eterogeneità di situazioni che innescano talvolta bisogni diversi».
«Nella risposta all'impatto sociale che la malattia determina, la famiglia perde il proprio ruolo: la madre non lavora, il padre è molto spesso obbligato a cambiare lavoro perché la sera deve tornare a casa e dare una mano. Cambia l'assetto economico della famiglia, certamente in senso peggiorativo. Ecco, in Italia abbiamo scoperto che c'è una eterogeneità estrema di risposta anche economica a questi bisogni. Si va da alcune regioni che danno delle risposte alte, di migliaia di euro, anche 2.000 euro al mese, a delle risposte invece certamente meno efficaci e questo indipendentemente dal bisogno. Siamo di fronte ad un problema grosso che deve trovare soluzioni diverse da quelle attuali, perché questi pazienti aumenteranno, hanno bisogni sociali diversi e complessi che vanno valuti e nel limite del possibile corrisposti. Tra gli altri, e più pressanti, la presa in carico da parte di uno psicologo. È innegabile che una diagnosi di questo genere “sderena” la vita di chiunque e non tutti hanno la disponibilità del supporto psicologico. Gli psicologi che lavorano full time equivalent all'interno di queste strutture sono pochissimi e il rischio è che prevalga la “tuttologia” della psicologia. Si rischia, cioè, di “arruolare” seduta stante psicologi che si occupano di tutt'altro. Anche qui il training formativo è lungo, non esistono tante scuole e quindi è l'esperienza molto spesso all'interno del team che fa crescere molto i professionisti. Questo vale anche per il mondo infermieristico. Di solito la vecchia medicina vedeva l'infermiere come colui che eseguiva il “dettato” del medico. Nelle cure palliative, questo è impossibile. L'infermiere ha un ruolo specifico diverso dal medico e un'autonomia gestionale decisionale che deve esserci. Stessa cosa per il fisioterapista e per chiunque entri nel team. Quindi dobbiamo molto crescere sulla messa a disposizione di risposte sociali e psicologiche. Un'altra “falla” che abbiamo notato - che non trova corrispondenza nei paesi anglosassoni ad esempio, ma in quelli di matrice mediterranea - è quella della comunicazione al bambino malato. Indipendentemente dall'età, anche se i ragazzi hanno 16, 17, 18 anni e hanno dunque uno sviluppo cognitiva assolutamente adeguato, la capacità di parlare con loro della malattia, della loro situazione e delle loro prospettive in senso positivo - che saranno prospettive limitate, ma esistono - è praticamente pari a zero. Noi neghiamo, la società nega, i genitori non vogliono e molto spesso il team medico non vuole o non ne ha le competenze. Quindi un ambito nel quale assolutamente dobbiamo crescere è la capacità di comunicazione delle “cattive notizie”, usando uno slogan, ma che è invece la capacità di dire come stanno le cose trovando ciò che ti lascia la via aperta per vivere bene. E questo è possibile in tutte le situazioni. Non è filosofia, ma l'applicazione di una branca della medicina nuovissima, quale appunto sono le cure palliative. Non significa vendere miracoli, ma spostare l’obiettivo da ciò che non si può fare a ciò che invece si riesce a fare per migliorare la qualità della vita. A livello di formazione e di informazione sulle cure palliative pediatriche c’è ancora molto da fare. E fra i due scogli da superare, penso che il più ostico sia l'informazione, che è sbagliata, spesso pilotata e non competente».
«Spero non muoia. Adesso stiamo raccogliendo dei dati “semplici”, come il numero di pazienti in carico ed eventuali novità all'interno del primo questionario, quindi funzione, operatori assunti, deliberazione di centri eccetera per il 2022 e il 2023. Un aggiornamento continuo. Vedremo cosa dicono i colleghi e speriamo che la ricerca possa continuare. Io vorrei ripetere un'analoga valutazione, nel 2024 o 2025, con un focus particolare sui pazienti. Quindi l'idea è di mantenere questo database numerico per dire dove stiamo andando. Noi copriamo il 15- 18% dei bisogni reali, ora come ora: siamo in progressione? Siamo fermi? La criticità maggiore è la carenza di risorse? Sicuramente, ma non sono del tutto convinta che sia la sola. Penso ad esempio alla questione culturale, a quelle dell'informazione e della formazione».
«In giro per il mondo non è tutto oro quel che luccica. In Italia abbiamo una normativa eccellente, valutata sia in termini di efficacia, efficienza ed applicabilità per aumentare il “valore salute” del paziente e della famiglia. I modelli all’estero dipendono moltissimo dalle risorse sul territorio. Negli Stati Uniti, ad esempio, un modello come il nostro fatto da un centro che coordina una rete che segue il paziente ovunque lui sia, lavorando in stretto rapporto col territorio, è impossibile. Là tutto è affidato alle assicurazioni e il livello di sanità che puoi permetterti dipende dal tuo budget annuale. Quindi? Ci sono grandi capacità e investimenti all'interno degli ospedali ma, quando il paziente viene dimesso, il percorso si chiude in modelli che dipendono dal budget che hai e dall’assicurazione che paghi.
A livello europeo, alcuni modelli sono abbastanza simili al nostro, come ad esempio in Spagna che sta facendo grandi passi in avanti sulle cure palliative pediatriche. Nel Regno Unito, invece, si è partiti dall'hospice e non dalla rete e si sta cominciando a pagarne il conto perché le cure palliative tendono a diventare solo il fine vita, cosa che tutta la letteratura scientifica ormai nega, e stanno costruendo adesso le reti che partono dai grossi centri ospedalieri. In più gli hospice erano solo “charity” (organizzazioni non profit, finanziate attraverso fondi statali e raccolte di fondi, ndr) e come tali diventa un problema in più perché o tu hai fondi per mantenerlo o muore. In Germania ci sono le reti, però l’organizzazione è molto focalizzata sui centri di riferimento e penso che questo derivi anche dal contesto culturale. Però una legge come la nostra non ce l'hanno in molti. Anzi, è stata anche proposta come “modello” a livello di Organizzazione mondiale della sanità e devo dire che sulla carta funziona benissimo. L'applicazione pratica dipende dall'eterogeneità della risposta regionale. Da 10 anni le Regioni si stanno muovendo bene: abbiamo 8 Hospice, altri 6 sono in costruzione, le reti faticano ma il vero busillis è quanto personale sarà messo a disposizione, quanto i cittadini chiedono realmente di entrare in questa rete e quanto il mondo delle Università crede in questo modello di salute. Secondo me la salute in senso generale dipende da una crescita che non è solo sanitaria, ma culturale. Tutti sappiamo di avere il diritto di vivere bene, anche con una malattia considerata incurabile. Ma è difficile che questa consapevolezza si traduca poi in una richiesta di cure palliative perché, soprattutto in Italia e negli altri Paesi del Mediterraneo, prevale ancora l’idea ancestrale che le cure palliative siano destinate ai moribondi. Invece non è così».
«Penso che una risposta andrà trovata, perché abbiamo sempre più bambini bisognosi di cure palliative. Quindi vedo difficile che il sistema salute globale, ma anche il mondo accademico, possano non implementare le cure palliative pediatriche. Altro rischio è che le cure palliative diventino un argomento “di moda” e che vengano limitate da idee o da persone che hanno poche competenze nel campo. Quale sarò il livello di questa risposta, in un periodo storico così difficile, si fa fatica a capirlo. Ma è probabile che sarà in positivo perché, come dico sempre, le cure palliative pediatriche tolgono le castagne dal fuoco a molte persone, e quindi aiutano davvero tutti nella soluzione di problemi e nel dare “salute”. Però contemporaneamente quello delle cure pediatriche è un ambito che va fatto crescere secondo alcune regole e noi italiani talvolta siamo bravissimi nel derogare alle regole. In Italia in realtà abbiamo già molto dobbiamo solo avere il coraggio di scegliere come equamente suddividere le risorse e focalizzare l'interesse anche sul mondo della cronicità».